La mela rimane sempre mela
Pubblicato da Giovanni Graffeo in Attualità dal mondo · 21 Ottobre 2024
Il Doctor Angelicus, Tomaso d’Aquino, avviava i propri corsi poggiando una mela sulla cattedra e affermando perentorio: “Questa è una mela. Chi non è d’accordo può anche andarsene!”. Il santo filosofo della “retta ragione”, ripartiva dall’aristotelismo per affermare un principio senza il quale ogni relazione umana e ogni discorso razionale diventano impossibili: il principio di non contraddizione. La sua verità si fonda sulla corrispondenza con quella naturale che Dio ha infuso nella creazione; la “verità moderna” invece è su base puramente ideologica, detenuta da un ristretto numero di persone che la elabora e poi la propina al genere umano.La nostra epoca ha elaborato “la contraddizione del principio di non contraddizione”. Se i sostenitori del principio di non contraddizione volessero avvalersi del diritto di libertà di espressione, in antitesi al paradosso odierno, sarebbero tacciati quali negatori di una verità assoluta che è vietato contraddire! Benedetto XVI aveva indicato tale atteggiamento come “dittatura del relativismo”: l’unica verità accettabile è quella da me affermata e se qualcuno non dovesse accettarla peggio per la verità e per l’interlocutore! Per distruggere la verità oggettiva, il Politicamente Corretto inizia con il dialogo, poi passa alla tolleranza, e termina con il pensiero unico. Una volta affermatosi, esso cessa da ogni gradualismo, butta la maschera e scatta il vecchio riflesso della rivoluzione francese: nessuna libertà per i nemici della libertà. In Francia, notoriamente culla della libertè, già dal 2017 è in vigore una legge che prevede fino a due anni di prigione e 30mila euro di ammenda per chi commette “intralcio digitale” all’aborto; sì, digitale, ovvero spiegandone le dinamiche e gli effetti via internet. Quest’anno l’aborto è diventato un intangibile “diritto costituzionale”.Tra le tante guerre, che si combattono sul nostro pianeta, non è mai citata quella più subdola e pericolosa: la guerra delle parole. Guerra che consente al vincitore di imporre al mondo intero il proprio linguaggio. Potete cogitare ed esprimervi solamente come da esso stabilito; ma a nessuno può essere concesso un pensiero e un’espressione non prestabiliti. Un simpatico esempio ci fu dato quando iniziarono le prime apparizioni a Medjugorje: l’allora parlamento comunista di Belgrado stabilì “per legge” che sul territorio della Jugoslavia, non potevano avvenire miracoli né apparizioni; forse al Divino Creatore qualcosa era consentita oltre frontiera! Nel linguaggio odierno, l’uso dell’eufemismo “interruzione volontaria di gravidanza (IVG)” indica l’orribile pratica del delitto di aborto ed è usato al solo scopo di non urtare la suscettibilità dell’uditore. Siccome l’affermazione della verità consiste nel chiamare le cose col loro vero nome, cioè chiamare mela la mela, utilizzare le parole “aborto” o “infanticidio” diventa deflagrante; e quindi deve sparire dall’uso comune. Noi cristiani però siamo i discepoli di Colui che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), e lasciamo volentieri al demonio l’uso di un linguaggio fuorviante. Oggi più che mai diventa necessario comprendere i meccanismi della guerra delle parole per consentire un corretto linguaggio. Chi perde tale guerra, non soltanto diventa incapace di esprimersi con parole di verità, ma addirittura rischia di trovarsi a ragionare con la mentalità avversaria. Alla tanto sbandierata libertà di espressione, dobbiamo opporre la verità di espressione o meglio l’espressione della verità. Occorre oggi, in pieno secolarismo, dare un colpo di reni, come fanno i ciclisti in dirittura di arrivo, un’azione di coraggio, un atto di fede per chiamare le cose con il loro nome, per convincere noi e gli altri che la verità dell’ordine naturale è raggiungibile con la ragione, e che essa non è da inventare o da manipolare, ma da rispettare nelle sue leggi eterne. La mela è sempre sulla cattedra che ci guarda e attende o che andiamo via o che rimaniamo saldi a promuovere l’ordine naturale e cristiano, anche sul fronte semantico, dal quale può partire la sortita vincente dell’affermazione della Verità, unica Via di salvezza della Vita delle anime.Ciò è vero, anche se impegnativo per le verità naturali, accessibili con la ragione. Ma Gesù opera così anche per quelle sovrannaturali, dove oltre alla ragione, necessita la fede. Un esempio lo diede quando proclamò: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51-58). I Giudei inorridirono. Lo avevano seguito aldilà del lago sperando di farne il loro re. Era comodo un sovrano che desse loro quel pane che non avevano sudato e che chissà quanti altri dei loro grattacapi terreni avrebbe potuto risolvere. Gesù non teme di dare scandalo e insiste: <Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui>.Questa poi! Lo avevano inseguito per risolvere i loro problemi e Costui si lascia andare a discorsi davvero strani! Linguaggio “duro” il suo; e “da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.” Ma Gesù insiste implacabile, anche con i dodici, e lancia loro una pesante provocazione: «Forse volete andarvene anche voi?» E qui Pietro dà un colpo d’ala e salva la faccia; quella sua e quella dei dodici. Non ha capito molto, ma si fida di Lui: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio.» Gesù sottopone i dodici a questo difficile test perchè sa che ogni parola “uscita dalla mia bocca non torna a me a vuoto, senza avere compiuto quello che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata” (Is 55,11); e ciò anche aldilà di ogni logica comprensione; è la potenza della Sua parola! Il meccanismo funziona e Pietro corrisponde con la modesta potenza della sua fede. Non sono i nostri sforzi o le nostre astuzie a produrre i risultati, ma la fiducia in Dio e il totale abbandono all’azione della Sua grazia. Ciò però non può essere un alibi per un fatalismo pigro o rassegnato: “Ogni cristiano, allora, sa bene di dover fare tutto quello che può, ma che il risultato finale dipende da Dio: questa consapevolezza lo sostiene nella fatica di ogni giorno, specialmente nelle situazioni difficili. A tale proposito scrive Sant’Ignazio di Loyola: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio” (Benedetto XVI, 17 giugno 2012). Né un annunzio fedele ed integrale (ma graduale) della verità può comportare mancanze di carità verso gli altri: non si usa la verità come un martello, ma neanche la si nasconde come un fazzoletto sporco. Al rapporto fra verità e carità Benedetto XVI dedicò la Caritas in veritate, un’intera enciclica, scomoda e poco apprezzata, tutta da studiare.
Un milite siciliano